LA DIETA MEDITERRANEA
ALLUNGA LA VITA DELLE DONNE
Una maggiore aderenza alla dieta mediterranea è associata a una significativa riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause tra le donne. Lo rivela uno studio coordinato da Shafqat Ahmad del Brigham and Women's Hospital e della Harvard Medical School di Boston che ha coinvolto 25.315 donne inizialmente sane, seguite per un periodo di oltre 25 anni.
In dettaglio, le donne che seguono più da vicino la dieta mediterranea presentano un rischio ridotto del 23% di mortalità per tutte le cause rispetto a quelle con una bassa aderenza a questa dieta. Questo dato è particolarmente rilevante poiché suggerisce che modifiche sostenibili e salutari nella dieta possono avere un impatto significativo sulla longevità.
Le partecipanti allo studio, appena uscito su JAMA Network Open, facevano parte del Women’s Health Study, che ha raccolto campioni di sangue, misurazioni dei biomarcatori e informazioni dietetiche. La dieta mediterranea è stata valutata utilizzando un punteggio basato su nove componenti dietetici chiave, con un punteggio più alto che indica una maggiore aderenza alla dieta.
L'analisi ha valutato anche 33 biomarcatori del sangue, inclusi lipidi, lipoproteine, apolipoproteine, infiammazione, resistenza all'insulina e misurazioni del metabolismo.
Questi risultati supportano ulteriormente le raccomandazioni delle linee guida nutrizionali che promuovono la dieta mediterranea come un modello alimentare salutare. Secondo lo studio, “una maggiore aderenza alla dieta mediterranea è stata associata a un rischio relativo di mortalità inferiore di un quinto, che potrebbe essere parzialmente spiegato da molteplici fattori di rischio cardiometabolico”.
Fonte: Doctor33
JAMA Network Open 2024. Doi: 10.1001/jamanetworkopen.2024.14322
http://doi.org/10.1001/jamanetworkopen.2024.14322
ALLERGIA AL NICHEL
Il nichel è un elemento presente nel suolo, nell’aria, nell’acqua e nella biosfera ed è la principale causa di allergia ai metalli e di dermatite allergica da contatto. In alcuni soggetti l’ingestione di alimenti contenenti nichel induce una reazione sistemica che può comprendere sia lesioni cutanee che sintomi gastrointestinali quali nausea, dolore addominale, meteorismo e diarrea. Questo quadro clinico è definito sindrome sistemica da allergia al nichel (Systemic Nickel Allergy Syndrome - SNAS).
Il nichel viene principalmente impiegato per la produzione di acciaio inossidabile, utilizzato poi all’interno di attrezzature per il trattamento degli alimenti e per contenitori. Inoltre, viene usato per la fabbricazione di articoli di bigiotteria e gioielleria, accessori di moda metallici in genere, chiavi, occhiali, attrezzi metallici, stoviglie, monete metalliche, tinture per ceramiche, porcellane, vetro, alcuni cosmetici e prodotti per il make-up.
Il nichel è presente negli organismi viventi perché sia i vegetali che gli animali lo assorbono assumendo il loro nutrimento dal suolo e/o dall’acqua. Il contenuto di nichel nel suolo e nell’acqua è molto variabile nelle varie regioni del mondo in funzione del tipo di terreno, dell’impiego di fertilizzanti sintetici e pesticidi, della contaminazione del suolo con rifiuti industriali e urbani, della distanza dalle fonderie di nichel. L’apporto di nichel nella normale dieta, pertanto, è fortemente influenzato sia dalla concentrazione di nichel nel terreno e nell’acqua che dal rapporto nella dieta fra alimenti di origine vegetale e animale, nonché dalle abitudini alimentari locali. Inoltre, il nichel è presente anche nel tabacco, fattore che rende i soggetti fumatori maggiormente esposti.
Anche se il nichel è ampiamente e diffusamente distribuito negli alimenti, esistono alcune tipologie di cibi che, generalmente, ne apportano maggiori quantità. Tuttavia, in letteratura non c’è univocità nella definizione di gruppi di alimenti ad alto o basso contenuto di nichel, con differenze anche considerevoli tra le diverse classificazioni. Il motivo di queste variazioni si può ricondurre al fatto che non è stato stabilito un valore soglia di concentrazione di nichel rispetto al quale un alimento possa essere definito “ad alto contenuto”, ma fonti diverse fanno riferimento a valori differenti. In ogni caso, per alcuni alimenti esiste un accordo praticamente unanime a considerarli senza dubbio ad alto contenuto di nichel, indipendentemente dal suolo in cui sono coltivati; si tratta di arachidi, fagioli, lenticchie, piselli e soia (che sono tutti legumi) e, inoltre, avena, cacao (e cioccolato), noci e nocciole, frumento integrale. Ne esistono altri, invece, che possono essere o meno presenti all’interno di questi elenchi a seconda del valore soglia di nichel utilizzato; sono ad esempio uva passa, carote, albicocche, fichi, funghi, pere e pomodori.
Il fabbisogno minimo quotidiano di nichel è stimato in circa 50 μg (0,05 mg) ed è coperto da una normale dieta; nell’uomo non sono note manifestazioni di carenza. È importante considerare che solo una quota tra l’1 e il 10% del nichel assunto con gli alimenti viene assorbita, mentre la maggior parte resta nel tratto gastrointestinale e viene poi eliminata. Tale variabilità nella quota assimilata è legata a diversi fattori, tra cui la contemporanea assunzione di vitamina C e ferro: entrambi questi micronutrienti, infatti, riducono l’assorbimento del nichel alimentare.
All’allergia al nickel sono attribuite varie modalità di presentazione sia cutanee, localizzate o sistemiche, che extracutanee. In linea generale, si possono distinguere due tipologie di reazioni distinte: la dermatite allergica da contatto (DAC) e la sindrome da allergia sistemica al nichel (SNAS); quest’ultima, a sua volta, può essere caratterizzata da manifestazioni cutanee (la cosiddetta dermatite da contatto sistemica o DSC) ed extracutanee (gastrointestinali, respiratorie, neurologiche etc.).
La diagnosi della DAC (dermatite allergica da contatto) è basata sul Patch Test per nichel, che consiste nell’apposizione sulla cute, solitamente sulla schiena, di un cerotto contenente un preparato a base di nichel per un periodo di 48 ore; durante questo intervallo di tempo, nel soggetto allergico si verifica la migrazione dei linfociti (una tipologia di cellule del sistema immunitario) sensibilizzati, nella sede di apposizione del preparato. Dopo altre 24-48 ore avviene la lettura: se nella zona di applicazione si evidenzia la comparsa di un’area eritemato-vescicolosa più o meno accentuata, si conferma la sensibilità.
Per indagare la sindrome sistemica da allergia al nichel è invece necessario, dopo aver accertato la sensibilità con Patch Test, seguire due step diagnostici. Il primo prevede di effettuare una dieta di esclusione per un periodo di 2-3 settimane e valutare la risposta clinica, che deve dimostrare un significativo miglioramento. In seguito, il paziente deve essere sottoposto a un test di tolleranza orale con capsule pre-dosate contenenti nichel, per verificare il riprodursi dei sintomi descritti.
Per quanto riguarda la terapia da attuare per la dermatite allergica da contatto, il primo ed essenziale approccio è l’individuazione e conseguente allontanamento della fonte di sensibilizzazione. In seguito, per evitare ulteriori esposizioni, è bene che il paziente sia adeguatamente formato rispetto a quali oggetti e materiali di uso comune possano presentare elevati livelli di nichel. In presenza di lesioni cutanee severe, può essere opportuno seguire una mirata terapia dermatologica prescritta da uno specialista che, in casi estremi, può essere abbinata all’assunzione di corticosteroidi.
La questione è, invece, più complessa, se si fa riferimento alla sindrome da allergia al nichel sistemica. L’efficacia della dieta a basso contenuto di nichel in questa tipologia di pazienti è, infatti, un tema piuttosto controverso. Innanzitutto, non esistono valori soglia univocamente stabiliti che identifichino alimenti “ad alto” o “a basso contenuto di nichel” e, inoltre, non è stata definita una quota giornaliera di nichel che non dovrebbe essere superata. Bisogna poi considerare che la tolleranza ai diversi alimenti da parte di chi è allergico è estremamente soggettiva e che, spesso, le reazioni più intense non sono legate al consumo di un singolo alimento ad elevato contenuto di nichel ma, piuttosto, all’assunzione di più fonti di nichel nel corso della stessa giornata. Per un efficace contenimento dei sintomi, quindi, è importante evitare di inserire più alimenti contenenti nichel nella propria dieta giornaliera e, per ulteriore precauzione, escludere (o comunque limitare) gli alimenti che sono più ricchi di questo metallo: legumi (in particolare arachidi, fagioli, lenticchie, piselli e soia), avena, cacao e cioccolato, noci e nocciole, frumento integrale.
Sul piano farmacologico, è in commercio un vaccino desensibilizzante che, attraverso la somministrazione di dosi crescenti di nichel, sarebbe in grado di ripristinare la tolleranza nei soggetti affetti da SNAS, riducendo i sintomi e la necessità di assumere farmaci, senza dover ricorrere a restrizioni dietetiche. Sebbene alcune evidenze abbiano dimostrato la sua efficacia, tale trattamento è tuttora oggetto di discussione. Ulteriori studi saranno necessari per supportarne l’utilizzo nella pratica clinica.
In tempi recenti, è stata ipotizzata una relazione tra assunzione di nichel, sindrome da allergia al nichel sistemica e alterazioni del microbiota intestinale. Nei soggetti con SNAS, infatti, si riscontrano con maggiore frequenza casi di disbiosi, con ridotta presenza di microrganismi benefici come Lactobacilli e Bifidobatteri. È ancora da chiarire, però, se questa alterazione della composizione del microbiota sia innescata dall’assunzione di nichel e sia, quindi, causa dei sintomi gastrointestinali, oppure se sia una conseguenza dello stato infiammatorio in cui si trova l’intestino.
Fonti:
SmartFood – Istituto Europeo di Oncologia Allergie e intolleranze alimentari, Documento condiviso, Gruppo FNOMCeO
The Effects of Low-Nickel Diet Combined with Oral Administration of Selected Probiotics on Patients with Systemic Nickel Allergy Syndrome (SNAS) and Gut Dysbiosis. Lombardi F et al., 2020
Nickel Allergy. Rishor-Olney CR, Gnugnoli DM, 2023
STEATOSI EPATICA:
LA DIETA PUÒ GUARIRE IL FEGATO GRASSO?
La steatosi epatica o fegato grasso (o NAFLD, acronimo di Non-Alcoholic Fatty Liver Disease o, ancora, MASLD, malattia epatica associata a disfunzione metabolica, come è stata recentemente rinominata) è una patologia del fegato senza dubbio diffusa: si stima che ne soffra 1 persona su 4, nella maggior parte dei casi senza saperlo.
Infatti, la steatosi epatica è una malattia che non dà sintomi, se non sfumati o dopo anni, e che usualmente viene scoperta nel corso di un'ecografia dell'addome, di solito svolta per altre ragioni. Al reperto ecografico il fegato steatosico rivela un caratteristico aspetto "brillante", dovuto proprio al grasso in eccesso, sotto forma di trigliceridi, che finisce letteralmente per infarcire le cellule di quest'organo, gli epatociti.
La steatosi epatica è patologia che in genere può considerarsi benigna, ma non priva di possibili complicazioni, prima tra tutte la steatoepatite, un'infiammazione cronica capace di danneggiare il fegato (si parla di NASH, Non-alcoholic Steatohepatitis, steatoepatite non alcolica, per distinguerla dalla steatoepatite provocata dall'abuso di alcol, o, con un termine più corretto e attuale, di MASH, steatoepatite associata a disfunzione metabolica). Il danno infiammatorio agli epatociti può esitare, nel tempo, in fibrosi e quindi in cirrosi epatica. Quest'ultima costituisce una patologia grave, degenerativa, che evolve facilmente in epatocarcinoma, il più frequente tumore maligno del fegato. Si tratta, in sostanza, di uno scenario del tutto sovrapponibile a quello che si verifica negli alcolisti, nell'epatite alcolica. Per una buona prognosi della steatosi epatica, la tempestività di intervento si rivela pertanto fondamentale.
Il ruolo della corretta alimentazione nel fegato grasso è fondamentale: la medicina, ancora oggi, non dispone di farmaci specifici contro questa patologia, mentre la dieta rappresenta uno dei pochi presidi terapeutici documentatamente efficaci per la steatosi epatica.
I cibi da evitare o limitare sono sicuramente gli zuccheri semplici, compresi quelli contenuti nella frutta, per la loro capacità di innalzare il livello di trigliceridi nel sangue.
Sostanza a cui le persone con fegato grasso farebbero bene a rinunciare del tutto è l'alcol, compreso quello contenuto in vino e birra, bevande verso cui tanti manifestano un'erronea indulgenza. Questa cautela è importante anche nella steatosi di cui stiamo parlando, quella non alcolica, perché l'alcol comunque stimola la produzione di trigliceridi e peggiora l'infiammazione del fegato.
I grassi sono fin troppo demonizzati, ma da parte dei pazienti con steatosi epatica è raccomandabile moderazione nel consumo di grassi saturi, riducendo soprattutto il ricorso a formaggi, ancor più se stagionati o intensamente fermentati, a salumi e insaccati.
Sono consigliati, invece, verdura, pesce, carni magre, cereali integrali, legumi, semi e frutta a guscio: è su questi cibi che dovrebbe essere imperniata la dieta di chi soffre di NAFLD/MASLD e, a maggior ragione, di NASH/MASH, evitando tuttavia la monotonia e la ripetitività.
Sono da privilegiare sempre ricette poco elaborate e modalità di preparazione semplici, che non richiedano eccessive quantità di condimento.
C'è una considerazione trasversale a quanto detto sopra e che non può essere omessa: la steatosi epatica è più frequente nei soggetti in sovrappeso o obesi, oppure normopeso ma con elevata circonferenza vita, con diabete di tipo 2 o con sindrome metabolica (quel quadro che vede la contemporanea presenza di più condizioni, tra cui sovrappeso, insulino-resistenza, ipertensione arteriosa e alterazione dei livelli ematici di colesterolo e trigliceridi). Come se non bastasse, questi pazienti hanno pure maggiori probabilità di avere la steatoepatite non alcolica (NASH/MASH) piuttosto che la semplice steatosi (NAFLD/MASLD).
Dimagrire e contrastare la sindrome metabolica sono dunque obiettivi imperativi per chi è in sovrappeso e qui la dieta per il fegato grasso deve essere anche una dieta finalizzata a regolarizzare gradualmente la composizione corporea, ad abbassare la glicemia, a normalizzare il quadro lipidico. In questi casi, è consigliabile farsi seguire da un nutrizionista esperto.
Il fegato grasso può guarire: tra le cure più potenti in assoluto per arrestare, e persino invertire, l'evoluzione della steatosi epatica ci sono il cambiamento delle abitudini alimentari e la pratica di un'attività fisica aerobica (corsa, nuoto ecc.) almeno a giorni alterni. Tuttavia, è necessario intervenire per tempo, perché, al contrario, l'evoluzione in cirrosi epatica rappresenta uno scenario privo di possibilità terapeutiche, a parte il trapianto di fegato.
Fonte:
Dott. Luca Avoledo - Biologo nutrizionista, specialista in Scienza dell'Alimentazione, dottore magistrale in Scienze della Nutrizione Umana, dottore magistrale in Scienze Naturali, master in Naturopatia
BERE POCO ALCOOL FA BENE ALLA SALUTE?
Un gruppo di ricercatori spiega come mai alcuni studi mostrano un'associazione fra longevità e consumo moderato di alcolici e perché la realtà è più complessa.
Ritorniamo sulla più classica fra le false credenze a tavola, ovvero “un bicchiere di vino al giorno fa bene alla salute”. Ci sono state diverse pubblicazioni scientifiche che hanno mostrato dati su bevitori moderati che vivono più a lungo e hanno meno rischi di malattie cardiovascolari o altre patologie croniche rispetto agli astemi. Conclusioni basate in modo importante su dati falsati da errori di metodo, secondo un gruppo di ricerca canadese che ha pubblicato un’analisi dal titolo eloquente: «Perché solo alcuni studi di coorte riscontrano benefici per la salute nel consumo moderato di alcolici?». Dalle pagine del Journal of Studies on Alcohol and Drugs gli autori spiegano dove sta un intoppo evidente riscontrato in molte ricerche sul tema alcool e salute.
Gran parte degli studi che hanno dimostrato un vantaggio del consumo moderato di alcolici mette a confronto dei gruppi di persone, seguite nel tempo, raccogliendo dati sulla longevità e le abitudini col bere. Il problema è che generalmente queste indagini considerano persone avanti con gli anni e non considerano le abitudini pregresse. Col risultato che vengono etichettati come astemi o bevitori occasionali anche gli individui che bevevano alcolici ma hanno smesso proprio per ragioni di salute. E così gli adulti over 55 che continuano a consumare alcolici finiscono ovviamente per risultare la fascia di popolazione che sta meglio.
L’indagine dei ricercatori si è concentrata su 107 studi pubblicati. Presi i risultati tutti insieme, i bevitori leggeri o moderati (da un drink a settimana a due al giorno) avevano un rischio di morire nel periodo di osservazione del 14 per cento più basso rispetto agli astemi. Ma, andando a guardare con più attenzione ai dati, i risultati finivano per essere diversi.
In particolare, il consumo moderato di alcolici non era più associato ad una vita più lunga negli studi che includevano persone più giovani (sotto i 55 anni all’inizio della rilevazione) e che tenevano gli ex bevitori o i bevitori occasionali come categorie distinte rispetto agli astemi.
Spesso infatti «è guardando agli studi più deboli che si vedono i benefici per la salute» ha concluso Tim Stockwell, primo autore della ricerca.
Già in passato altre analisi avevano evidenziato la complessità di questo tipo di dati, sottolineando che oltre all’abitudine a bere o non bere andrebbero soppesati adeguatamente altri fattori, come genere, età, condizioni socioeconomiche, relazioni sociali e personali, fumo, dieta e condizioni fisiche, uso di sostanze.
In generale, le principali agenzie di salute pubblica sono concordi nel dire che non esiste un consumo benefico di alcolici, né un consumo innocuo di alcolici, di qualunque tipo. L’alcool in sé è una sostanza tossica e cancerogena. Il danno alla salute è ovviamente proporzionato alle quantità, e ci sono livelli di consumo che possono essere considerati a basso rischio per adulti in buona salute.
Fonti:
Donatella Barus – Fondazione Veronesi
Why Do Only Some Cohort Studies Find Health Benefits From Low-Volume Alcohol Use? A Systematic Review and Meta-Analysis of Study Characteristics That May Bias Mortality Risk Estimates, Journal of Studies on Alcohol and Drugs, 2024
QUINOA: PROPRIETÀ, BENEFICI E VALORI NUTRIZIONALI DI QUESTO SUPER ALIMENTO
Ricchissimo di proprietà benefiche per l’organismo, la quinoa è un alimento originario del Sudamerica. Amante dei climi miti e asciutti, la pianta della quinoa è coltivata anche in Italia, ma difficilmente si adatta alle colture di tipo intensivo. Nonostante ciò, la quinoa si trova ormai facilmente nel nostro Paese, sugli scaffali dei supermercati e dei negozi biologici.
Grazie al suo sapore delicato e alla facilità di cottura, la quinoa si sta diffondendo sempre più nella dieta degli italiani, risultando particolarmente adatta alla preparazione di primi piatti, insalate e sformati. Con i suoi piccoli semi di colore avana-marrone, era considerata dagli Incas la “Madre di tutti i semi”, per via dei suoi effetti benefici sull’organismo. Infatti, le caratteristiche benefiche della quinoa, rendono questo alimento un vero e proprio super alimento adatto a ogni regime alimentare.
La quinoa è spesso erroneamente associata alla categoria dei cereali a causa del suo alto contenuto di amidi, ma in realtà si tratta di una pianta erbacea simile a barbabietola e spinaci, che contiene dei semi. Le foglie di quinoa, infatti, possono essere cotte alla stessa maniera e presentano un gusto molto simile a quello degli spinaci. Nonostante ciò, la quinoa può essere considerata un semi-cereale, o pseudo-cereale, perché le sue caratteristiche la rendono adatta a sostituire le altre graminacee.
Al pari degli altri cereali, i chicchi di quinoa si prestano bene alla macinazione per la produzione di farina, ma viene solitamente consumata al naturale, come primo piatto o in accompagnamento ad altre pietanze.
Normalmente i chicchi sono ricoperti di saponina, una sostanza amara che tiene lontano insetti e uccelli dalla pianta. Trattandosi di una sostanza potenzialmente tossica, prima di cuocere i semi di quinoa è quindi necessario lavarli bene per eliminare questi indesiderati fattori chimici.
Come già accennato, la quinoa è un super alimento ricco di tutti i nutrienti necessari al benessere del corpo. Le proprietà della quinoa sono notevoli e i tanti benefici derivati dall’introduzione di questo alimento nella dieta sono stati tutti comprovati dalla scienza.
Prima di tutto, la quinoa contiene tutti i 10 aminoacidi essenziali che sono indispensabili per il buon funzionamento dell’organismo. Questo rende il profilo proteico della quinoa di qualità migliore rispetto a quello dei cereali di più largo consumo. Inoltre, è ricca di antiossidanti, tra cui il campferolo e la quercetina. Questi ultimi aiutano a combattere i radicali liberi e mantengono il corpo giovane e attivo, svolgendo anche un'efficace azione antinfiammatoria.
La quinoa è anche apprezzata per i suoi effetti benefici sul transito intestinale. Questi derivano dalle fibre in essa contenute che rendono la quinoa un alimento adatto alle persone che soffrono di stipsi.
L’alto potere saziante dei semi di quinoa si rivela poi un ottimo alleato per chi vuole tenere sotto controllo il peso. Può essere utile in questo senso sostituire una porzione di pasta o riso con una di quinoa per soddisfare il desiderio e la necessità di carboidrati e controllare i successivi attacchi di fame.
Tra i sali minerali che contiene, è da sottolineare una discreta quantità di magnesio che ha funzione energizzante e contribuisce alla buona salute del sistema nervoso. Insieme ad un’altra molecola contenuta nella quinoa, la lisina, regolano la produzione di serotonina e aumentano il buonumore.
Infine, la quinoa è un ottimo alimento che previene i disturbi cardiovascolari, grazie alla presenza di acidi grassi buoni, in particolare quello linoleico.
Sono circa 370 le calorie della quinoa per 100 gr di prodotto, ciò significa che il suo apporto calorico è pari di quello di altri carboidrati ma, rispetto a questi ultimi, contiene molte più proteine, ha un alto potere saziante ed è ricchissima di fibre alimentari, indispensabili per la regolarità dell’intestino. Inoltre, le calorie della quinoa scendono a 120 kcal quando il prodotto viene cotto, così come diminuiscono altri macro e micronutrienti a beneficio dell’apporto idrico.
L’apporto energetico della quinoa è fornito principalmente dai carboidrati, seguito dalle proteine e da piccole quantità di lipidi. Rispetto a questi macronutrienti, va specificato che le proteine costituiscono il 14% del peso del prodotto, superiore a quelle presenti nel frumento, nel mais e nelle patate, ma inferiore rispetto ad avena e grano saraceno. I carboidrati sono di tipo complesso e i lipidi sono rappresentati perlopiù da acidi grassi insaturi, benefici per la salute delle arterie.
Il suo alto contenuto proteico rende la quinoa particolarmente indicata per i soggetti che prediligono una dieta vegana o vegetariana e un alimento fondamentale nell’alimentazione degli sportivi, perché aiuta lo sviluppo della massa muscolare e ha un’azione energizzante grazie anche a calcio, fosforo e ferro. Infatti, questi minerali sono presenti in quantità superiori rispetto agli altri cereali.
L’indice glicemico basso della quinoa lo rende un alimento adatto per chi soffre di diabete o semplicemente per chi sta seguendo una dieta ipocalorica.
È inoltre priva di glutine, quindi può essere consumata anche da soggetti affetti da celiachia.
Infine, contiene ottime dosi di vitamine, è priva di colesterolo e può essere consumata anche dalle persone intolleranti al lattosio.
La quinoa non presenta particolari controindicazioni, salvo per i soggetti che soffrono di specifiche intolleranze alimentari o allergie. Prima fra tutte l’allergia al nichel, sostanza di cui i semi di quinoa sono ricchi. Inoltre, le persone che tendono a sviluppare calcoli renali dovrebbero evitare l'eccesso di quinoa nell’alimentazione, a causa degli ossalati in essa contenuti.
Anche le saponine contenute nella quinoa potrebbero comportare degli effetti indesiderati. Queste sostanze, se consumate in quantità elevate, sono tossiche per l’organismo e potrebbero arrecare disturbi quali nausea, vomito e mal di stomaco.
Tuttavia, sciacquando accuratamente i chicchi di quinoa sotto l’acqua corrente prima della cottura, si riduce drasticamente la quantità di saponine.
Fonti:
Redazione NutriDoc.it
https://www.hsph.harvard.edu/nutritionsource/food-features/quinoa/
https://fdc.nal.usda.gov/fdc-app.html#/food-details/168917/nutrients